Le case automobilistiche annunciano nuovi modelli elettrici. I dati migliori di diffusione riguardano i Paesi Nordici dove sono state attuate misure efficaci di sostegno al mercato.
Del resto una ipotetica vendita vigorosa di auto elettriche fatta prima del 2021 avrebbe per effetto una riduzione delle emissioni medie di CO2 della produzione di ciascuna casa a tale data, che costituisce la base su cui calcolare gli ulteriori abbattimenti imposti dalla UE (-15% al 2025 e -37,5% al 2030, rispetto al 2021). Vendere auto elettriche tra qualche anno potrebbe essere più fruttuoso che farlo adesso.
Ma al di là di questa considerazione, resta il fatto che salvo che nei Paesi nordici in cui sono state attuate misure efficaci di stimolo e sostegno, consentite anche da un forte PIL e un forte reddito pro-capite, si avverte ancora una grande timidezza del mercato, che stenta ad espandersi in misura convinta.
Anche se l’incremento annuo delle auto elettriche vendute in Italia sfiorasse il 100%, il loro numero in valore assoluto resterebbe a lungo trascurabile sui 37 milioni del parco nazionale.
E d’altra parte fanno da contraltare a questa timidezza della domanda anche segni di indecisione se non preoccupazione della stessa industria dell’auto. È comprensibile che questa non possa ancora affrontare una diffusione massiccia, che oltre alla rete di ricarica richiede forti investimenti per la riconversione produttiva in un non facile quadro economico, un remake esteso della rete di servicing e re-skilling del personale, e impianti di riciclaggio delle batterie. Anche in Italia, dove solo il 39% delle auto endotermiche immatricolate viene costruito nel Paese, l’impatto di un cambio di paradigma appare forte, se si pensa che nel comparto della componentistica nazionale la sola produzione di motori diesel, molti per esportazione, vale oltre 5 miliardi di Euro.
Ma anche nei Paesi leader dell’automotive resta il fatto che almeno un quinto della catena del valore dell’auto elettrica viene assorbito dalla batteria, e che si imporrebbe in ogni caso una radicale ristrutturazione produttiva, partendo magari dalla Call UE per la “Progettazione e produzione su scala europea di moduli di batterie di nuova generazione”. Call purtroppo di modesto successo al momento, che sembra confermare le incertezze di cui si diceva.
Ma non mancano atteggiamenti di reazione ancora più netti, che prendono spunto da una visione che torna a guardare soltanto vicino. In Germania è attuale la discussione innescata da un accreditato Istituto di analisi economiche (#ifo), per il quale “nelle emissioni climalteranti l’auto elettrica è un passo indietro alle moderne diesel”. Affermazione che ha dalla sua il credito politico degli autori. Molto in sintesi, in un’analisi complessiva sul ciclo di vita LCA, le emissioni per la costruzione delle batterie al litio (per quelle prodotte nei Paesi asiatici da 120 a 500 kg di CO2 per kWh di batteria, a causa del preminente uso di carbone per l’energia elettrica necessaria al processo manifatturiero), sommate alle emissioni per la produzione elettrica in Germania (che col decommissioning del suo nucleare deve contare maggiormente sul carbone) porterebbero alla conclusione di cui sopra. In sostanza, l’invito non molto nascosto sembrerebbe: prendiamoci una pausa di riflessione e mettiamo in giro auto elettriche quando tutto verrà da fonti rinnovabili.
Allargando il loro orizzonte osservativo gli autori avrebbero però potuto prendere atto che negli USA e in Europa vi sono già ora produzioni di batterie con emissioni da 30 a 70 kg CO2 per kWh di batteria (per un’auto di classe B equipaggiata con 40 kWh le corrispondenti emissioni chilometriche sarebbero di 5-10 gCO2/km su una vita della batteria di 300.000 km), e che anche per quanto riguarda le emissioni per la produzione elettrica ci sono già Paesi virtuosi. Come l’Italia, che se riuscirà ad attuare pienamente quanto scritto nel Piano Nazionale Energia e Clima potrebbe arrivare a 204 gCO2/kWh al consumo, corrispondenti a meno di 40 gCO2/km per un’auto elettrica di classe B in uso reale, inferiori ad ogni altra opzione tecnologica.
Farebbe bene all’Italia? Uno scenario al 2030 disegnato da CIVES nel contesto delle proposte del Coordinamento FREE sul Piano Nazionale Energia e Clima, assume come ipotesi principale che il consumatore e il mercato italiano reagiscano quantitativamente allo stesso modo di quanto verificatosi nei Paesi in cui sono state soddisfatte le aspettative della cittadinanza agendo su incentivazioni e sullo sviluppo di una sufficiente rete di ricarica (Osservatorio EAFO – European Alternative Fuels Observatory). In questa ipotesi il mercato si svilupperebbe in due fasi distinte. Nella prima, con una blanda presenza di misure incentivanti economiche, insufficienti comunque a portare alla competitività con i veicoli endotermici, e l’avvio di una infrastruttura di ricarica pubblica, la quota di mercato delle elettriche potrebbe salire da qui al 2023-25 all’1,5-2%. Interverranno nel frattempo una serie di variabili esogene capaci di innescare una crescita decisamente più vigorosa: a) i nuovi vincoli UE sulle emissioni medie di CO2 della produzione automotive (-35% al 2030 rispetto ai valori attuali); b) la politica della Cina, che impone alle case automobilistiche interessate a quel mercato l’introduzione di una quota del 20% di autoveicoli elettrici, stimolando una maggior produzione e forti economie di scala; c) la radicale riduzione di costo delle batterie già vista negli ultimi anni e che proseguirà col maggior mercato, e il contestuale aumento della loro densità energetica, che porteranno ad autonomie e costi competitivi delle auto elettriche. In sostanza, una situazione in grado di soddisfare seriamente le aspettative del consumatore.
Nei Paesi in cui, sia pure attraverso altri meccanismi (fortissime incentivazioni fiscali, economiche e regolatorie), tale obiettivo di “soddisfazione dell’utente” è stato raggiunto già da tempo (Norvegia e in minor misura Svezia e Olanda), la quota di mercato degli elettrici ha visto incrementi annui del 6-7% sulle vendite totali di auto, fino a sfiorare in Norvegia l’attuale 50%. Assumendo la stessa risposta da parte dei consumatori italiani, al 2030 avremmo un po’ più di 4 milioni di veicoli elettrici.
Una componente fondamentale di tale successo è naturalmente la contemporanea disponibilità di una adeguata rete di ricarica, che in Norvegia non si declina tanto nella dimensione della rete pubblica (12.000 punti di ricarica per oltre 250.000 auto elettriche nel 2018), quanto nella quasi capillare diffusione della possibilità di ricarica domestica e aziendale. Oltre l’80% delle ricariche avviene infatti in tali ambiti, col vantaggio di un minor costo ma soprattutto con la percezione di un forte valore aggiunto, rappresentato dalla grande comodità di un punto di rifornimento nei luoghi dove l’auto è normalmente ricoverata di giorno o notte.
In effetti anche negli altri Paesi, inclusa l’Italia, la maggioranza dei first adopters dell’auto elettrica sono quanti hanno la possibilità di ricaricare a casa o in azienda, considerata l’inevitabile carenza di punti di ricarica pubblica all’avvio del mercato. Ma la ricarica privata assume rilevanza anche maggiore in prospettiva, quando l’energia accumulata nelle batterie di milioni di auto elettriche potrà costituire il miglior serbatoio tampone per il pieno sfruttamento delle FER, per loro natura aleatorie.
In Italia, almeno 18 milioni di automobili sono ricoverate in box o posti auto privati condominiali o aziendali, e in garage a pagamento. Considerata la tendenza alla riduzione del parco auto nazionale, che anche per il crescente successo del car sharing potrebbe contrarsi al 2030 a meno di 30 milioni di unità (oggi 37 milioni), la ricarica privata potrebbe coprire una quota assai significativa delle percorrenze elettriche italiane qualora in tali 18 milioni di box, posti auto e garage vi fosse un’adeguata disponibilità di energia elettrica. Situazione quest’ultima sulla quale non vi è oggi alcuna informazione attendibile. Un normale allacciamento elettrico da 3,3 kW potrebbe reintegrare nottetempo o durante l’orario lavorativo 150-200 km di autonomia, lasciando alla rete pubblica l’estensione a percorsi maggiori e ai veicoli ricoverati in strada.
In sostanza, logica vorrebbe che lo sviluppo della rete di rifornimento per la mobilità elettrica seguisse sin d’ora un approccio e una programmazione olistici in cui le due componenti, pubblica e privata, vedano il giusto ruolo e il giusto dimensionamento.
Nella grande maggioranza dei confronti economici tra auto elettrica e auto convenzionale si è normalmente assunto il costo del kWh domestico o “per altri consumi”. Oggi è però ineludibile considerare anche quello della ricarica pubblica. Il costo chilometrico con ricarica domestica/aziendale (non considerando i costi impiantistici per renderla possibile) appare decisamente competitivo rispetto a qualunque motorizzazione endotermica. Orientarsi nella giungla dei costi alla ricarica pubblica è un esercizio da capogiro, stante la pletora di formule esistenti per l’accesso, gli eventuali abbonamenti, le formule promozionali, l’uso o meno di energia elettrica verde, il conteggio o meno della durata temporale della ricarica ed eventuali altri fattori e servizi offerti. Considerando il solo costo dell’energia, e limitandosi alla modesta casistica, è però chiaro che la ricarica pubblica è inevitabilmente più costosa. Non mancano proposte tese a ridurre la tariffazione dell’elettricità destinata a quest’ultima, per contenere per quanto possibile il divario. Proposta che si scontra con i già mancati introiti fiscali derivanti dalle forti accise sui carburanti (mediamente 4 cent€/km) e col dover eventualmente aumentare, per compensazione, la bolletta di chi l’automobile non la usa.
Ma a conti fatti i 4,3 milioni di veicoli stimati al 2030 nello scenario sopra riportato, porterebbero sì a una riduzione di entrate fiscali da accise di circa 2 miliardi/anno, ma nello stesso tempo ridurrebbero l’importazione di idrocarburi per più o meno la stessa entità (1,8 MLD secondo CIVES, 2,4 MLD secondo The European Climate Foundation). Senza considerare le minori esternalità negative per il miglioramento della qualità dell’aria.
Come comporre questo puzzle a cinque tasselli (tariffa elettrica domestica e pubblica, accise e risparmio nelle importazioni e nei costi sanitari) è lasciato all’immaginazione della politica.
Pietro Menga – Presidente CEI-CIVES
Articolo tratto da Ottantadue, Luglio 2019
Per gentile concessione di Cobat